Un battesimo da cui ripartire.

“Vuoi dirmi del cambiamento, Mary?”
le chiesi con il sussurro quasi inudibile della mia voce calma.
“Vuoi, Mary?”
chiesi ancora con il silenzio del mio sguardo.
Mi rispose con la timidezza di un sorriso:
un sorriso che portò la sua espressione verso il basso,
che spostò il volume dei suoi lunghi capelli verso l’alto.
Restò in silenzio: in silenzio a fissare il pavimento poco oltre i suoi piedi nudi mentre io, nel frattempo, continuavo a fissare lei.

Al nostro fianco l’incenso continuava a bruciare: era l’unico indizio a suggerire, nell’immobilità di quella scena, che il tempo non si fosse comunque fermato.
Spire di fumo verso l’alto, cenere verso il basso: una clessidra a due direzioni.

Con la moneta dei minuti trascorsi pagò Mary al suo sguardo il biglietto per viaggiar oltre la finestra socchiusa: aveva pensieri liberi e vitali Mary, cavalli allo stato brado sul morbido terreno fertile della sua immaginazione.
Se avessi parlato io, in quel momento così fragile e prezioso, forse non l’avrei più vista tornare: era quello il tempo di lasciarla correre libera, circondata e sospinta da tutto quel caotico e polveroso galoppare.

Rincasò da sola, Mary: torno in sé prima del buio, prima di sera, prima che il mio accogliente pazientare fosse disturbato dai bollori di un’ingestibile preoccupazione.
Rincasò da sola: prima che l’ansia iniziasse a fermentare, in autonomia ritrovò i suoi spazi.

Tornammo a discorrer del cambiamento senza usar le parole: a discorrer del cambiamento guardando alla mèta, più che non alla direzione.
Lasciai così scivolare le prime frasi d’un libro che solo in diverse settimane sarebbe giunto al suo finale: un libro che era in realtà la dichiarazione d’intenti d’un vivere nuovo, sorretto e governato dall’equilibrio tra buon senso, rispetto e compassione.
Al fianco del mio scrivere iniziò Mary a porre le colorate basi per un dipinto che avrebbe richiesto settimane di gestazione: un dipinto che era in realtà la fotografia d’un mondo nuovo, un mondo in cui tra forme di vita differenti v’erano armonia e collaborazione.

Un dipinto che era la fotografia d’un libro che descriveva il dipinto che lo fotografava.

Sette settimane di creativa e fertile dedizione per un’opera nuova, un supporto che permettesse alla luce d’atterrare.
Un supporto che permettesse alla luce d’atterrare, che le permettesse di giunger quaggiù portando con sé un nome nuovo.
Un nome nuovo, un battesimo da cui ripartire.

“Tell me if the pain can open your mind.
And we will all become brothers”

Breve citazione in inglese dal brano qui sopra © Valentina Romano (link alla sua pagina Facebook)

Risalendo la spirale.

Facing fear, facing birth: the emptiness, the void, the dreams unfold

Jack abita le alte colline, lontano dai sentieri più battuti: là, ove il legno delle alture lascia gradualmente spazio alle rocciose asperità delle montagne, ha trovato il suo Cuore temporaneo ristoro.
Jack ha attraversato i mari, ritemprandosi tra l’intensità dei flutti: ha seguito il Sole, navigando tra le sinuosità delle maree per approdare su quelle degli alti declivi.
Ha affrontato le paure e, nel farlo, ha inevitabilmente attraversato morti e rinascite: ha colmato, con l’Amore infinito che Tutto sostiene, i vuoti d’aria che l’avrebbero privato del respiro.

Turning ice to rivers, static wheels begin to turn
Like a field with endless harvest, the first breath we take

Il vecchio Jack ha costruito la sua dimora con il fuoco: con il fuoco ed al cuore dell’Inverno ha stabilito Jack la transitoria sede del suo nomade esistere.
Il vecchio Jack è armoniosamente inserito nell’eterno mutamento della Natura, delle Stagioni: con l’essenza del suo focolare trasforma il ghiaccio in torrenti rimettendo in circolo il fluido della Vita, ridonando movimento al fluire dell’Esistenza.
Come gli alberi il vecchio Jack ogni quattro mesi muta pelle: si cambia d’abito come cambia pelo il lupo, come si confonde l’ermellino.
Come si libra leggero il bruco, a metamorfosi compiuta: per campi sterminati, fertili e gravidi di nutrimento, a sostenere il primo respiro d’una Vita nuova.

A picture from a dream forms a destiny: the circle of life, bound to be broken

Il buon vecchio Jack ha dipinto la Vita migliaia di volte: sulla tela dei suoi quadri, sulle trame del suo discernere, sull’eterea stoffa del suo sentire.
Il buon vecchio Jack ha dipinto la Vita migliaia di volte ma la Vita è sempre riuscita a sorprenderlo, donandogli suggestioni nuove: come a mostrargli che anche un capobranco debba saper talvolta reclinare il capo, come a mostrargli chi sia davvero il capobranco, l’intangibile manifestarsi di volontà imprescindibili.
Il buon vecchio Jack ha dipinto ricorrenti forme circolari, a rappresentare con quelle geometrie la perfezione dell’Esistenza: senza mai completamente richiuderle, a testimoniare con quei tracciati semiaperti l’imperfezione della nostra natura terrena.

Come and feel the silence, come and watch the Sun, come and bid farewell
Tales will be told, tales will be ignored

Il caro buon vecchio Jack ascolta la Natura nel suo silenzio e senza emetter suono alcuno le risponde.
Il caro buon vecchio Jack comunica con vibrazioni più sottili di quelle sonore: più sottili ed efficaci, a non disturbare il primordiale respiro del Creato.
Più sottili ed inequivocabili: non fraintendibili, nella loro trasparente benevolenza.
Sono tanti i racconti che il caro buon vecchio Jack avrebbe da condividere, se ancora ci fosse qualcuno in grado di ascoltare: sono cronache di scelte di Vita per le quali manca oggi forse il coraggio, sono narrazioni di un’Esistenza fiduciosamente aperta al suo stesso divenire, sono resoconti di un’intensità rinvigorente.

Sono favole, per chi più credere non sa.
Favole, per chi occhi più non ha.

A path in Time, built with Fire.
A path in Time, built with Fire.

Citazioni in inglese dal brano “Building with fire” degli Enslaved (Compositori: Ivar S Peersen / Kjetil Grutle / Iver Sandoy / Herbrand Larsen – Testo © BMG Gold Songs)

La resa dell’incontro.

La bellezza di Novembre si nasconde tra il fruscio di un vecchio amplificatore valvolare, in quei tempi che abbiamo saputo riprenderci: per scaldarci, come le valvole dell’amplificatore.
Per scaldarci, con la calma e la lentezza delle valvole dell’amplificatore.
Per scaldarci, per vivere.

La bellezza di Novembre è nella semplicità, nell’autenticità: è nel fruscio che rende un suono imperfetto, è nella fragilità del calore umano.
È la voce supplicante di Stipe che dallo stereo viene ad elevare la mia, abbracciandone l’incompletezza: è un incontro commuovente, in quest’umida mattinata di pioggia battente.

La bellezza di Novembre è nel fluido movimento delle nuvole in cielo, nella loro tensione ad un equilibrio che muta di secondo in secondo: che c’è sempre, che non c’è mai.
È un invito a ritrovare Casa: a sentirci al sicuro, aprendoci così ai sentimenti più alti e nobili che il nostro spirito, legato alla concretezza di questa materia, possa condividere e sperimentare.

And promises are sweet:
We eat them up, drink them up

La bellezza di Novembre è un’esortazione a rallentare la corsa, a riprendere fiato, sintonizzando le nostre frequenze su quelle della Natura: è un invito alla quiete, alla riflessione, poiché muovendoci troppo in fretta non daremo a niente e nessuno la possibilità di toccarci il cuore.
È il ricongiungimento con la nostra indole umana, fragile ed imperfetta: è la voce rauca con cui, tra le lenzuola stropicciate di queste notti dilatate, lasceremo vibrare sussurrate parole d’Amore.

I only wish that I could hear you whisper down

La bellezza di Novembre è nella resa incondizionata a tutto ciò che non ci è dato comprendere o controllare: è nel saper accogliere senza giudizio, senza nevrosi o agitazione.
È la mente che abbandona la rigidità dei suoi schemi, inadeguati ed obsoleti, per farsi liquida: per scivolare così, fluida, verso il cuore.

All those stars drip down like butter

Forse, infine, la bellezza di Novembre sta proprio nel suo saper seguire le leggi della Natura, nel suo trovar cioè compimento muovendosi incontro a Dicembre: con fare accogliente, rigonfio di buone intenzioni, nell’amorevole calma di una riunione che sa prendersi tutto il tempo e lo spazio che merita.


Hey, let me in
Hey, let me in
Let me in.

Citazioni in inglese dal brano “Let me in” dei R.E.M (Compositori: Michael Mills, Peter Buck, Michael Stipe, Bill Berry)

Attraverso il velo (la cera di Maya).

“Modern sundowns break me”

Maya ha, d’inverno, una pelle di cera.
La sera, quando l’unico bagliore è il sodio dei lampioni, attraversa le strade deserte della città lasciando che delicati fiocchi di neve scivolino, senza realmente toccarla, sull’irreale bellezza delle sue guance immacolate.
Nulla tocca la cera del tuo viso, Maya: neanche la madida danza di questa neve fresca.

“Undressed tonight, forsaken skin”

Maya ha, d’inverno, una pelle di cera.
La sera, quando l’unico calore è il sodio dei lampioni, attraversa il freddo blu di un tramonto mancato per ritrovar sé stessa nel silenzio di una nevicata.
Su questa neve fresca neanche i passi, Maya: neanche i pensieri riesci a sentire.
C’è spazio solo per le emozioni, che intorno a te danzano come fiocchi di neve sottomessi al tuo volere.
C’è spazio solo per emozioni che ti sfiorano, senza realmente toccarti: come si avvicina al tuo viso la neve, senza mai realmente bagnarti.

Maya ha, d’inverno, una pelle di cera: una pelle di cera ed un cuore caldo (magico, forse) che la cera non scioglie.

“I’ll wait until you can see me here (left so long alone)”

Vienimi incontro, Maya.
Copri queste distanze Maya, divorale con gli occhi ancor prima che con il tuo incedere sicuro: con lo sguardo, lo sai anche tu, sei già qui sul mio respirare.
La condensa del mio espirare, nel freddo di questa sera d’inverno, già s’apre per accoglierti, per abbracciarti.
Per scaldarti.
Copri queste distanze, Maya: divorale con l’intenzione, quella stessa che ci ha resi cera entrambi.
Cera, impermeabile all’umidità di questo clima ostile: un velo di cera quasi trasparente nell’avvolgere un cuore che, nel buio di questa notte d’inverno, umile faro sarà per chi seguirci vorrà.

“I’ll never say a word of this, I swear. I swear.”

Andiamo, Maya: un altro ovattato passo ancora, sulla tenerezza di questa neve soffice.
Un altro ovattato passo ancora: con la luce del nostro cuore a riscaldare quello dell’inverno.

Andiamo, Maya: là è già primavera.
Là è già primavera, Maya: è già rinascita.

“I swear”.

Citazioni in inglese dal brano “April” dei Tesseract, qui in versione rivisitata dagli Shadowboxer.
(Compositori: KAHNEY ALEC JOSEPH / MONTEITH JAMES ROBERT DENIS / POSTONES JAMES ROBERT / TOMPKINS DANIEL MARK / WILLIAMS AMOS PREM © Reservoir Media Music, Magic Arts Publishing Usa)
Hey, Shadowboxer, if you are reading this I want you to know that you are worthy of my deep gratitude and appreciation: you’ve made a real gem with this cover & video. Thanks.

Il dinamismo dell’equilibrio.

Is this fake, all you need?

C’è una stanza speciale che nessuno conosce, tranne te: un luogo incantato in cui, con imperturbabile quiete, pianifico da anni una partenza che si fa vicina.
C’è un letto, al centro di questa stanza: è così basso e largo che pare volersi radicare, con inamovibile stabilità, fin nel profondo della Terra.
Sull’accoglienza del letto, elegantemente ripiegati, i morbidi vestiti scelti per il viaggio: sono disposti con ordine, come fossero coordinate precise tra gli assi di Cartesio.
Come fossero figurine dei calciatori: di quelle introvabili, di quelle che i bambini amano ammirare con religiosità senza mai trovar il coraggio di incollarle sull’album.

Al centro del letto che è al centro della stanza, tra l’ordinata disposizione dei vestiti, uno spazio è rimasto vuoto.
Tra gli assi di Cartesio, in quel punto, qualcosa non ha funzionato: è l’incompletezza della logica matematica.
È la tensione insita già nel bambino, quando si fa cosciente che di tutto l’album manchi proprio solo quella figurina lì.

Lì, in quello spazio fino a poco fa vacuo, ho poggiato la foto di quel Monte a noi caro: vi è raffigurata una vegetazione viva, rigogliosa, che con Amore lascia spazio alla Luce che viene dall’Alto.
Nella foto ancora non si vede, ma ci siamo anche io e te: siamo piccoli, ci siamo fatti piccoli, di fronte alla grandezza dell’Universo.
Piccoli, in un’Energia così grande.

Ora, in questa stanza così speciale, avverto la tua presenza alle mie spalle: sei in piedi sulla soglia della porta, un paio di metri dietro me.
In padmasana sul pavimento, mi sento piccolo dinnanzi alla tua statura eretta.

My voice, its subtlety

Con calma e flebile voce ti parlo del viaggio, di come manchino praticamente solo più i biglietti aerei, nell’esaurirsi di un’attesa che ha maturato i tempi.
Di fronte alle emozioni di una partenza e citando parole non mie, ti chiedo di ignorare il diritto alla paura: siamo legati a ciò che sogniamo.

Ignore the right to fear
You’re bound by what you dream

Fuori è notte di Luna piena: dalla finestra socchiusa filtra in stanza una fresca brezza ristoratrice, una luce fioca a sufficienza da permetterti di prender parola.

The light is weak enough
To let you speak
(Come closer, I am here)

Ti fai vicina, un passo ancora: fiore di loto anche tu, alle mie spalle.
Le tue gambe così ripiegate poggiano sulla mia schiena eretta: le tue ginocchia a lambire i miei fianchi.
Le tue labbra, vicine ora al mio viso, mi dicono che è giunto il Tempo di “liberare quei meccanismi inconsci che hanno condizionato il nostro vissuto finora, spesso utilizzati in modo automatico come maschere, come scudi protettivi di quelle ferite troppo dolorose da guardare direttamente”.

Ti ascolto, socchiudendo gli occhi: poggiando le mani una sull’altra, centrandole sul Cuore.

Come closer, I am here
Come closer, I am here
Come closer, I am here

C’è un Simbolo, appeso al muro in questa stanza speciale, che risplende ora d’una Luce intensa: è il dono che portasti con te al nostro primo incontro e pare ora più luminoso della candida pienezza del Satellite.

È il dono che portasti con te al nostro primo incontro, e ci accompagnerà per chissà quanti altri incontri ancora.
Per chissà quanti altri viaggi ancora ci accompagnerà.
Per chissà quanti altri viaggi ancora ci accompagneremo.

Just trust my eyes, you’ll see

In inglese, citazioni da “Satellite” dei Votum (Compositori: bart sobieraj / adam kaczmarek / adam łukaszek / bart turkowski / piotr lniany / zbigniew szatkowski)
Photo credits: Sachi Shiomi 

Uno.

Giunti sul culmine della collina, io e Sara ci arrestiamo entrambi:
lo facciamo nella sincronicità di uno sguardo condiviso, senza usare la parola.
Tra i suoi occhi ed i miei solo la delicata tensione di intangibili filamenti celesti,
perfettamente distesi nella loro eterea essenza.

Il Sole, ancora intorpidito dal sonno, si mette ora a sedere sui crinali:
da quelle alture viene il primo dei raggi del nuovo giorno ad avvolgerci, Sara.
È un caldo ed intenso abbraccio: ha il colore dell’ambra ed in quel colore a me ti avvicina.
È il nostro percepire che si amplia al di là dei sensi: che sa andare oltre, come scavalca il Sole le montagne.

È giorno, e tu ti fai più vicina.
Conti i centimetri, adesso, Sara?
Quanti saranno: ottanta, settanta?
Mi sento accolto e, in questo mio sentire, muovo un piccolo passo anche io: quaranta.

I want you to tell me who you are,
in your dreams.
Who is there,
and is it beautiful?

Mantieni lo sguardo ed il silenzio, Sara:
in questo silenzio dimmi chi tu sia, nei tuoi sogni.
È bello ciò che vedi?
Quali sono i colori del tuo percepire, quale la sua colonna sonora?
Continua a rispondermi così: mantenendo su di me lo sguardo, mentre anche io non vedo che te.

Puoi farlo, Sara: se lo vuoi, fatti più vicina.
Venti.

Do you know?
If it is a word
is it love?

C’è una mano, ora, a dieci dita.
Questo c’è, mentre lasci che le tue labbra poggino sul mio viso come le foglie d’autunno sulla rugiada dei prati.
Ora, per un istante, socchiudiamo entrambi gli occhi.

C’è un corpo, sul culmine della collina: un corpo con quattro occhi socchiusi.

Un corpo, nell’abbraccio di un Sole che ha ormai superato le montagne.

In inglese, citazione dal brano “Like Music” degli Ulver (ripresa poco sotto anche in italiano).
(Autori: Jørn H. Sværen, Kristoffer Rygg & Tore Ylwizaker)

L’ultima Matrioska.

Try this trick
and you’ll ask yourself:
“Where is my mind?”

Era sera ormai tarda: una tarda sera d’ottobre quando Dylan, sentendosi la testa stranamente vuota e leggera, infilò d’istinto la giacca per uscir incontro all’aria d’autunno.

Un’elettricità tangibile dirigeva l’invisibile danza di azoto e ossigeno: come stesse per rinascere l’universo intero e le stagioni, affaccendandosi frenetiche per prepararsi all’evento, si confondessero le une nelle altre scambiandosi le vesti.

In questa tensione creativa, forse poiché ormai maturo, autunno ricevette in dono da primavera lunghi pomeriggi in grado di strappare l’oscurità a morsi, di restituire a sere tarde come questa la luce che loro spetta.

Vestito a primavera, autunno rappresentava ora l’ultima d’una lunga serie di gravide matrioske: l’ultima che, in questa tarda sera d’ottobre, avrebbe dato i natali ad una stagione nuova.

Un ultimo travaglio, poi nient’altro che Vita.

Un ultimo travaglio, poi nient’altro che Vita: come se la mente di Dylan avesse finalmente smesso di comprendere e razionalizzare, delegando al cuore il compito di accoglier ed accettare.
Come se la mente di Dylan avesse infine imparato a tacere, lasciando al cuore il compito di ascoltare.

Era una tarda sera d’ottobre e Dylan, fluidamente, tra i viali alberati di un paese assopito riprese a camminare.

 

(La breve citazione in inglese è dei Pixies: “Where is my mind?”, brano qui riproposto in un’intima veste piano&voce. Compositori: Charles Michael Kittridge Thompson).

Serramenti socchiusi.

“Puoi andare, quando ti pare”
“Ah, non avevo capito, scusa. Antipatico. Tanto va a finire che ci lasciamo”
“Vaffanculo”
“No, vaffanculo tu”


Fin dal loro primo incontro, Alice e Francesco avevan vissuto nella piena naturalezza: nella profonda pace di un’armoniosa naturalezza che tutto trasforma, anagrammando anche un sussurrato “vaffanculo” in un delicato “ti amo, sai?”.

Con naturalezza s’eran conosciuti: con naturalezza innamorati, nella Stagione in cui per il mondo là fuori gli amori estivi in realtà svaniscono, sublimando al Sole d’un Settembre in divenire.
Con naturalezza avevano intrecciato i loro vissuti: cercandosi costantemente, come si inseguono le eliche del DNA.
(Come si intrecciano le dita degli amanti, tra le foglie dell’Autunno a passeggiar).

Ne attraversarono di Stagioni insieme: di Natali a ridere in famiglia, con i piedi a sfuggire al freddo dell’Inverno tra i caldi e soffici cuscini del divano.
Di Primavere dall’irruenta spensieratezza e di Estati che sapevano scorrere in fretta, portandoli insieme a celebrare un altro anniversario ancora.

Il Tempo divenne così senza peso: trascorse via leggero, fino al giorno in cui Alice e Francesco la capacità di mandarsi a fanculo persero di vista.
Fu quello il giorno in cui lei sentimenti più non condivise, affidando la sua ricerca d’affetto alle imprevedibili voglie d’un gatto che (con parsimonia e ad orari improponibili) un po’ di coccole svogliatamente elargiva.
Francesco lumi non chiese poichè era evidente che, nel cuore di Alice, la risposta fosse frammentata oltre che incompleta: avesse voluto farla uscire in silenzio, le avrebbe aperto una miriade di piccoli dolorosi varchi nel petto.
Avesse voluto tradurla in fonemi e parole, le avrebbe ustionato bocca e laringe, mucose e corde vocali.
(Quei frammenti d’una risposta parziale sarebbero poi giunti ad un Francesco che, senza più difese alcune, avrebbe pagato a caro prezzo l’intenzione del suo domandare).

A heart that’s full up like a landfill

Francesco preferì allora restare in camera da letto:
a fissare il soffitto, ad abbracciare la chitarra.
A suonare, a non pensare.
A suonare, disturbando la perfetta verticalità dell’incenso che (perpendicolare al suo corpo disteso) saliva al soffitto dimenticandosi la gravità.
A suonare ancora, a rendersi insensibili i polpastrelli.
(Sarebbe stato così facile anche con il cuore?)

Bruises that won’t heal

In cucina, nel frattempo, Alice disponeva su qualsiasi superficie piana tazze colorate che, da contenitori a tempo indeterminato di caffè americano, divennero così originali accessori d’arredo: quattro di queste, in bilico sul davanzale, sembravano voler abbracciare tre piccole piantine grasse in perseverante attesa di un po’ d’acqua.
(O affetto).
(O entrambi).
Pareva ci mettessero tutto il loro impegno, queste tazze colorate con il caffè americano, nel portar calore o colore: ad Alice, alla cucina, alle tre piantine.
(Era un conforto però temporaneo, che il caffè in fondo si fredda in fretta e, al seguire del tramonto, si spengon con le luci anche i colori).

I’ll take a quiet life

Alice aprì appena la finestra, destabilizzando ulteriormente l’equilibrio di tazze e piantine: s’accese una sigaretta e, alla prima boccata di fumo, forse singhiozzò.
In quello stesso istante, oltre la porta socchiusa della stanza da letto, Francesco il suo arpeggiare d’improvviso arrestò.

A handshake

Alice lasciò libera l’emozione e, senza mai pianger davvero, iniziò invece a cantare.
La chitarra di Francesco, attraverso la porta socchiusa, al canto di Alice si venne ad intrecciare. 
(Non fan così anche le dita degli amanti che, superata l’insicurezza, riprendano insieme a camminare?)

Il testo della canzone fu didascalia perfetta per questa loro ritrovata fiducia, per questo sentire che non si cercava incrociando forzatamente lo sguardo ma che, con naturalezza, sapeva giunger anche ad occhi chiusi.

Negli anni a seguire, per Alice e Francesco non si palesarono più né spaventi né sorprese.
Non ci furono più né sveglie né sorprese.
Né ansie né sorprese.

No alarms and no surprises
No alarms and no surprises
No alarms and no surprises

“Please”.

In inglese, brevi citazioni da “No surprises” dei Radiohead – (Colin Charles Greenwood / Edward John O’brien / Jonathan Richard Guy Greenwood / Philip James Selway / Thomas Edward Yorke)