Agorafilia di parole.

“Sono stufo di quello che le parole dicono
quando son l’evidenza di un immacolato buon senso comune”.




E’ come se qui non ci fosse abbastanza spazio: le parole scelgono allora di vestirsi d’elegante inchiostro corvino per scivolare via su ruvida carta,
non riuscendo a trovare i modi per la mutazione digitale che ha il suo delta sulle intangibili spiagge del web.
Ed è su quelle spiagge che, scavalcando l’apparenza, ci si accorge che lo spazio non è sufficiente per parole che amano riprodursi nelle sconfinate distese della mente:
tenendola occupata anche nelle ore meno gestibili,
spingendola verso la concretizzazione su anacronistica cellulosa che si stende con sensuale disponibilità per accogliere il liquido parto della mente creativa.
Nell’astrattezza del dedalo di connessioni a bassa latenza lo spazio è mal gestito,
troppo densamente popolato:
l’intimità d’uno scrivere che pare autoalimentarsi ha bisogno in primis di una pausa in luoghi sicuri e conosciuti,
affidabili quanto le pagine del nostro più caro diario.
Lì tra quelle pagine la scrittura giungerà a maturazione, arricchendosi come il più pregiato degli spiriti: potrà così privarsi del suo supporto e fluttuare senza peso in ogni mezzo, soffermandosi nel cuore d’aspiranti esteti che ancora, probabilmente, non sanno d’esserlo.


“L’umano fracasso contamina il fiato dell’universo”.





Nota: nel virgolettato in apertura parte del testo di “Sacrosanta verità”, brano dei Marlene Kuntz pubblicato sull’album “Senza Peso”, 2003.
In chiusura ancora Marlene: “Canzone ecologica”, da “Uno”, 2007.

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